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Fortnite

La recensione di papà Federico e mamma Viola

Se avete figli tra gli 8 e i 13 anni ne avete per certo sentito parlare. Fortnite è prima che un videogioco, un fenomeno generazionale con pochi o nessun precedente. Prima di entrare nel tema di questa recensione – se e come introdurre ai nostri figli un gioco dove lo scopo è far fuori tutti gli avversari -, è bene ragionare su un dato.

Con 350 milioni di giocatori iscritti, Fortnite ha ormai trasceso lo status di solo videogioco, ottimamente calibrato per essere molto divertente e attrattivo, diventando un luogo di socialità digitale dove trovarsi con gli amici o trovarne di nuovi, dove dunque sperimentare la propria voglia di conoscere e conoscersi, di apparire e piacere in un ambiente protetto. E dove da qualche tempo si organizzano eventi che ratificano l’importanza di esserci pur sotto forma di avatar. O attraenti proprio perché in forma di avatar, con quella bella skin (vedi dopo) che mi sono fatto regalare dalla nonna giusto ieri. Il concerto del rapper Travis Scott, un’esclusiva per la sezione Party Reale del gioco, ha visto collegati in contemporanea qualcosa come 12 milioni di persone.

Una festa globale che non vogliamo esaltare come alternativa al vedersi in presenza ma che non può sfuggire essere un antipasto del futuro stratificato tra reale e digitale dei nostri figli. Insomma, negare ai propri figli Fortnite a priori è sbagliato, anche solo per queste premesse. Ma ora vediamo assieme come affrontarlo.

Fortnite è un gioco gratuito, ed è multi-piattaforma, nel senso che può essere giocato su computer, smartphone e su qualunque console: basta scaricarlo, creare il proprio utente e via. Non è però, e questo è importante, un cosiddetto pay-to-win, cioè un titolo che pur gratuito presenta acquisti in-app che permettono di avere dei vantaggi competitivi rispetto agli altri. Ne parliamo meglio più avanti. Si tratta di un titolo cosiddetto third person shooter, in italiano tradotto “sparatutto in terza persona”, uno dei generi più consolidati negli ultimi 30 anni di videogame, di solito più diffusi però in prima persona (che è una modalità attivabile). Si va in giro, si raccolgono armi, munizioni e scudi, e si spara a tutto quello che si muove (a meno che non si tratti di alleati). Le similitudini con i vecchi Doom o Quake o gli attuali blockbuster Call of Duty e Overwatch finiscono però qui. L’ambientazione di Fortnite è esagerata nel suo look fumettoso, colorato e… irreale, reso tale anche dai personaggi – gli altri giocatori - che possono apparire come degli orsetti piuttosto che nei panni di Capitan America, dato che l’enorme popolarità del gioco l’ha rapidamente portato a essere al centro di progetti di marketing con i marchi più famosi tra i ragazzi, dalla Marvel a TikTok – con i balletti – fino a Samsung per skin dedicate a chi possiede uno smartphone coreano.

 

Non c’è mai sangue, né eventi traumatici. La morte dell’avversario o la propria si risolvono rapidamente in – rispettivamente – un numero di punti incassati oppure un semplice game over. Non c’è linguaggio sbagliato o accenni a tematiche non adatte ai bambini-ragazzi. Un’attenzione ai dettagli verso un’età delicata che di fatto ha portato Fortnite a incassare un PEGI 12, cioè l’essere classificato come un gioco adatto dai dodicenni in avanti. La realtà è poi che se è vero che chi gioca ha anche 20-30 e passa anni, molti giocatori sono bambini anche di 8-9 anni. È lecito? Alla luce di quanto detto finora, ossia l’ambientazione fantasiosa e la forte socialità intrinseca, siamo per il sì. Ma con delle regole ben precise, stabilite assieme, a cominciare dal tempo da dedicare al gioco. Che formalizziamo sempre in un’ora massima di seguito a mai più di 2-3 ore considerando tutte le attività a schermo della giornata. In questo possono aiutarvi i controlli parentali presenti su ogni piattaforma di gioco. Ma questi ultimi, pur utilissimi, non devono mai sostituire il vostro ruolo al fianco di vostro figlio. Tanto più in un ambiente stratificato come quello di Fortnite, dove giocare è solo una parte dell’interazione. Alcuni commentatori sono arrivati a parlare del gioco di Epic Games come la rappresentazione reale dell’universo digitale di Oasis, il videogioco in realtà virtuale raccontato nel romanzo Ready Player One (divenuto poi un discreto film) dove di fatto si erano trasferite buona parte delle attività degli esseri umani di un futuro un po’ catastrofico. Fortnite è diventato, o diventerà, una parte della vita di vostro figlio e lo sarà per un certo tempo. Vivetelo come un’uscita con gli amici e fate un bagno di umiltà: giocatelo con lui anche se vi sfotterà perché siete lenti e prevedibili. Ma se in battaglia guiderà lui, sarete voi la guida in un ambiente fortemente sociale – con tutti i rischi e i benefici, da imparare ad affrontare -  e con un’economia reale complessa.

 

Si tratta di un’economia molto forte, anche qui parliamo di record: secondo un recente calcolo, le micro-transazioni sulla piattaforma di gioco valgono per circa 3 mila dollari al minuto. Ma cosa si può acquistare? Vestiti, per dirla facile. Cioè tutti gli acquisti che si possono fare sul gioco sono di natura puramente estetica. Ecco appunto le skin cui accennavamo prima, a cui si aggiungono altri ammennicoli per farsi belli, come può essere uno squalo robot che si sostituisce al paracadute in dotazione quando veniamo lanciati sull’isola che è il campo di gioco. E poi ci sono le “mosse”, i balletti per bullarci o scherzare con gli altri, chiamati emote. Nessun vantaggio in-game, come si suol dire. Gli acquisti servono per apparire bene, fighi, piacere e ritrovarsi tra amici-simili, così esattamente come accade nella realtà. Distinguersi dai “nabbi”, quelli che hanno appena iniziato a giocare, e mostrare il proprio status. Su questo giro di transazioni si è creata anche un’economia parallela che arriva alle vendite online su eBay. Parliamo di cifre che possono pesare sulla carta di credito dei genitori per qualche centinaio di euro all’anno, anche di più. Ma anche qui, se non si capisce – e rimanere quantomeno perplessi da questa pratica di desiderare/acquistare oggetti digitali è più che lecito – non ha senso opporsi. È l’equivalente di negare un paio di jeans con il taglio del momento. Si può farlo, ci mancherebbe, ma va spiegato. E quindi regolato assieme.

 

Fortnite diventa di fatto un ottimo strumento per capire assieme il valore dei soldi: le skin e il resto si pagano in V-Bucks, la moneta del gioco. Ma questa si acquista con euro sonanti. Oppure i V-Bucks si possono vincere nella modalità “Salva il mondo” (vedi il capitolo successivo) o tramite il Pass-battaglia stagionale (il gioco ogni tot settimane mette in campo una nuova stagione con novità di vario genere), che però si può acquistare anche in euro. Si tratta di un equilibrio economico che va trattato assieme. Anche considerando l’altro lato della medaglia: salendo di livello ed entrando nelle categorie superiori, si può partecipare a tornei che hanno in palio montepremi anche ricchi, con qualche migliaio di euro per il primo classificato. In un’organizzazione inevitabilmente piramidale, con al vertice i giocatori più forti – veri e propri miti dei vostri figli, perché come il Tyler “Ninja” Blevins uniscono il giocare a guadagni di svariati milioni tra premi e sponsorizzazioni – e sotto man mano i più deboli, è chiaro che chi arriva a guadagnare e appare come un modello da seguire lo fa “sulle spalle” dei molti che spendono e basta. Anche qui serve un equilibrio da cercare assieme.

 

A questo côté “professionale” ne aggiungiamo un altro forse più interessante per un genitore. Molte agenzie di selezione di personale sono oggi attente a carpire dal curriculum dei candidati se sono gamer, poiché il gaming richiede capacità e risorse (cognitive e soft skills). E sono varie le capacità cognitive, ossia i processi di pensiero coinvolti nei videogiochi sparatutto come Fortnite. Parliamo ovviamente di tempi di reazione - che dopo i 20 anni iniziano a declinare, ed è uno dei motivi per cui il genitore medio arranca di fronte alla brillantezza del figlio – e di capacità di “rotazione mentale”, anche detta visual imagery. Le capacità di percezione i dettagli (acuità visiva) sono normalmente concentrate al centro del campo visivo, ma questi videogiochi allenano a tenere sotto controllo anche le aree laterali. Sono necessarie capacità attentive che consentono di supervisionare ciò che accade nell’ampia area di gioco (attenzione spaziale), non solo in prossimità. È importante tenere a mente più informazioni simultaneamente e per un periodo protratto (memoria di lavoro) al fine di decidere quali sono le scelte d’azione migliori in base alla fase della partita e alla situazione. Problem solving, pianificazione e decisione sono tra le abilità cognitive più importanti e qui hanno un ruolo ai fini di perseguire l’obiettivo finale, cioè la vittoria, ma anche obiettivi intermedi.

Speriamo di avervi fatto anche minimamente capire la complessità che non è del gioco in sé ma di tutta la struttura fortemente attrattiva che gli sta intorno. C’è chi sostiene che Fortnite sia un negozio con un gioco dentro. E questo è indiscutibilmente vero, sotto certi aspetti. Però perché il negozio funzioni, e lo faccia pur vendendo accessori del tutto… accessori, significa che il gioco attrae in modo magico, capace di sedurre un’intera generazione e anche oltre. E qui veniamo alla bontà del titolo in sé. Diciamo intanto che a funzionare così bene è una modalità di gioco di Fortnite, ossia quella chiamata “Battaglia Reale” che è un tutto contro tutti, in un’isola le cui dimensioni si riducono man mano a seguito dell’avanzare della nebbia, costringendo i 100 giocatori ad affrontarsi finché non ne rimarrà solo uno. La Battle può essere giocata in varie modalità, anche in squadra, dove oltre alla competizione si mette in gioco la cooperazione tra amici, momento magico che vale la pena far vivere ai vostri figli. Che nella “Modalità Creativa” studieranno mosse e strategie mentre nella lobby del gioco – in attesa che parta la battaglia – faranno sfoggio con i presenti del proprio look e dei propri emote. Meno frequentata è invece la modalità “Salva il mondo” perché spesso viene considerata troppo complessa nelle regole. E qui si trova la vera forza di Fortnite, ossia l’assoluta semplicità di gioco. Il che non vuol dire che sia un gioco facile, perché per “camperare” (neologismo che significa “ripararsi”) serve capacità di costruire i propri fortini, mentre per “tryhardare” (dall’inglese try hard, darci dentro) è fondamentale una strategia vincente e spesso anche di gruppo. Questa linearità che permette un ingresso facile e immediato, con una curva successiva – sempre dolce – di apprendimento per diventare più bravi, è figlia di uno studio da parte di Epic Games fortemente mirato alla completa soddisfazione dell’esperienza di gioco. Il successo è il risultato della facilità d’uso (usabilty) e della capacità di coinvolgimento (engage-ability). Spesso si parla per questi videogiochi free di formule di persuasione semi-occulte, i cosiddetti dark pattern che sfruttano le “debolezze” del nostro cervello. Nel caso di Fortnite, alla cui realizzazione hanno lavorato psicologi anche di livello, la capacità di coinvolgimento è basata su un’attenta valutazione della user experience che punta su motivazione - il giocatore si sente capace, libero, vicino agli altri -, emozione e scorrevolezza dell’esperienza. Un esempio sono i trofei/casse giornalieri assegnati ai giocatori per il semplice fatto di aver effettuato l’accesso al gioco (così come accade in Animal Crossing: New Horizon). Questo meccanismo spesso viene frainteso per una forzatura: ha il fine di far tornare il giocatore, sì, ma affinché questo consolidi in memoria i meccanismi e le regole del gioco. Sicuramente il genitore deve prestare attenzione a titoli gratuiti popolari tra i giovanissimi che implementano dark pattern che forzano gli acquisti. Non ci pare questo il caso di Fortnite. Secondo uno studio del 2020 di King e colleghi sui comportamenti di acquisto legati a Fortnite, sembra più facile che un giocatore compia micro-transazioni quando ha amici che effettuano acquisti. Dunque un principio imitativo che, sempre secondo lo studio, non sarebbe associato a rischi di gaming disorder (disturbo da dipendenza di videogiochi).

Chiudiamo questa recensione con una piccola riflessione sulla portata sociale di Fortnite, come detto un videogioco ma soprattutto una piazza virtuale dove incontrare coetanei con le stesse passioni e provenienti da tutto il mondo. Una ricchezza, da dosare come detto, ma anche da non sottovalutare. E se il gioco calamita soprattutto un pubblico maschile – dove si trova una maggiore attrattiva per le relazioni basate su principi competitivi – questo è da ricercare anche nella spinta tra gli adolescenti maschi (che poi si porterà avanti anche nella crescita) ad aggregarsi intorno al “fare assieme”, come la partita a calcetto dei 30-40enni. Fortnite è dunque anche un ottimo campo d’allenamento per i comportamenti prosociali. Una ricerca del 2020 di Ryan e Mc Donnell evidenzia che adottare un comportamento prosociale - un atto compiuto per il benessere degli altri - nel gioco determina cambiamenti positivi nel linguaggio usato dalla community e nelle emozioni espresse.

Un altro esempio di comportamento prosociale è la possibilità che i giocatori della stessa squadra possano curarsi l’un l’altro quando sono colpiti e perdono vita. Sotto questa luce, la sintesi forse migliore per capire Fortnite l’ha data il critico americano Tevis Thompson: “Non si tratta di un gioco solo per il vincitore finale, è un gioco per i 99 che perdono”.

Autore
Federico Cella
Federico Cella

Papà, giornalista del Corriere della Sera, esperto di videogiochi

Viola Nicolucci
Viola Nicolucci

Psicologa Psicoterapeuta con una formazione in Neuroscienze

Fortnite è diventato, o diventerà, una parte della vita di vostro figlio e lo sarà per un certo tempo. Vivetelo come un’uscita con gli amici e fate un bagno di umiltà: giocatelo con lui anche se vi sfotterà perché siete lenti e prevedibili.