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30 Agosto 2022Uno dei miti più resistenti sull’uso dei videogiochi, sfruttato periodicamente dal sensazionalismo mediatico, li vede come causa di epilessia. Tuttavia non è così.
Uno dei miti più resistenti sull’uso dei videogiochi, sfruttato periodicamente dal sensazionalismo mediatico, li vede come causa di epilessia, una condizione neurologica caratterizzata da una persistente predisposizione a sviluppare crisi epilettiche e da specifiche caratteristiche neurobiologiche, cognitive, comportamentali, psicologiche e sociali. Tuttavia, i fatti hanno dimostrato che i videogiochi non causano epilessia. Raramente, in determinate condizioni e nelle persone predisposte, alcune caratteristiche di luminosità legate ai videogiochi possono provocare l’insorgenza di una crisi epilettica.
Una crisi epilettica, secondo la definizione della Lega Italiana Contro le Epilessie (LICE), è una manifestazione improvvisa e transitoria caratterizzata da specifici segni e sintomi clinici che originano da un’anomala iperattività elettrica in alcune aree cerebrali o diffusamente. In base alle manifestazioni, si distinguono diversi tipi di crisi epilettiche: le crisi generalizzate tonico-cloniche, le più note, e le crisi focali, che originano in un emisfero o un’area circoscritta del cervello e in base alla localizzazione possono presentare caratteristiche motorie o non motorie (ad es. caratterizzate da sensazioni visive o olfattive o gastrointestinali, da riso o rabbia, da illusioni o sensazioni di già visto). Alcune epilessie, dette sintomatiche, sono dovute a malformazioni cerebrali, esiti di traumi cranici, tumori, ictus e malattie infettive del sistema nervoso centrale.
Il mito è stato generato da un elemento di realtà – l’insorgere di una crisi epilettica a seguito di particolari stimoli visivi – ma un’unica crisi provocata da uno stimolo sensoriale non è sufficiente alla diagnosi di epilessia. Inoltre, la presenza di fotosensibilità può predisporre a una crisi epilettica provocata da stimoli visivi e questo può accadere, in una piccola percentuale, sia alle persone che hanno una diagnosi di epilessia sia a chi non ha una diagnosi. Con fotosensibilità si intende una risposta parossistica misurata attraverso l’elettroencefalogramma a una stimolazione luminosa intermittente applicata con appositi foto-stimolatori. La fotosensibilità è determinata geneticamente, ha maggiore prevalenza in età evolutiva e adolescenziale e si stima sia presente in circa il 5% delle persone con una diagnosi di epilessia. Le scariche di attività cerebrale agli stimoli luminosi intermittenti possono essere presenti alla chiusura degli occhi, ad occhi chiusi o ad occhi aperti. La stimolazione monoculare diretta quindi a un solo occhio è meno attivante di quella binoculare.
Ma non è il tipo di fonte a causare una risposta parossistica, è il tipo di stimolazione luminosa intermittente. Le luci intermittenti possono essere sia naturali, come il riflesso del sole sull’acqua o il passaggio lungo un viale alberato, sia artificiali, come le luci al neon.
In chi non ha epilessia la rara insorgenza di una crisi epilettica improvvisamente durante un videogioco dà avvio a una serie di accertamenti diagnostici che possono portare o non portare a una diagnosi.
Facciamo un salto nel tempo. Tra il 1946 e il 1947 viene descritto per la prima volta l’effetto della stimolazione luminosa intermittente durante una registrazione elettroencefalografica. Nel 1952 Livingston pubblica il primo caso di epilessia provocata dallo sfarfallio di uno schermo televisivo. Dal 1970 compaiono i videogiochi collegati ad uno schermo televisivo e negli anni 1980 vengono descritti i primi casi di crisi epilettiche insorte durante il videogioco.
La frequenza di aggiornamento degli schermi televisivi si rivela come il fattore causale. Difatti, il passaggio degli schermii televisivi da frequenze di 50Hz e 60Hz a frequenze di 100Hz, a partire dagli anni 1990, determina una riduzione dei rischi per le persone con fotosensibilità esposte agli schermi. Con l’avvento degli schermi piatti si è eliminato uno dei fattori di rischio, la frequenza di aggiornamento o refresh, mentre il contrasto dei colori può ancora costituire uno stimolo elicitante.
La durata di esposizione allo schermo così come il tempo passato a videogiocare non sono invece fattori determinanti, purché si dedichi il tempo necessario al riposo e alle altre attività quotidiane.
Intanto, le aziende produttrici di videogiochi e gli sviluppatori iniziarono subito ad attenuare la stimolazione visiva nei propri videogiochi, con l’obiettivo di trovare un compromesso tra effetti spettacolari e modalità sicura. I progressi nell’accessibilità continuano, anche per chi ha altri tipi di rischi o difficoltà.
È comunque opportuno seguire alcuni accorgimenti se si ha una fotosensibilità accertata o se si avverte fastidio durante un videogioco, come sedersi ad almeno 60 cm di distanza dallo schermo, mantenere l’area di gioco ben illuminata, ridurre la luminosità dello schermo o usare protezioni e impostazioni appropriate, usare degli occhiali protettivi, e, se necessario coprire un occhio con la mano (non è sufficiente tenerlo chiuso) per ridurre l’impatto della stimolazione visiva.
Se si ha una diagnosi di epilessia si può videogiocare, continuando a seguire le raccomandazioni del proprio neurologo o neurologa relative alla regolarità del ritmo di vita, al concedersi di pause e a eventuali cautele specifiche.
In conclusione, l’esposizione ai videogiochi non fa diventare epilettici.
I videogiochi costituiscono, anche per chi ha una diagnosi di epilessia, una valida risorsa di intrattenimento, apprendimento e relazione da usare e fare usare con consapevolezza e responsabilità.